Su La Sicilia del 17/10/ 2010 Giuseppe Di Fazio osserva che la rappresentazione mediatica delle tragedie dei nostri giorni non suscita che uno “shock epidermico”, “un sentimento passeggero” di turbamento, mentre nell’antichità la raffigurazione di fatti delittuosi più o meno simili, “il male è ripetitivo”, che aveva luogo nelle tragedie greche era capace di “lasciare nel cuore dello spettatore… una domanda drammatica sul senso del male, che non si può eludere”.
L’osservazione dell’editorialista è acuta e stimola una riflessione.
Sulla scena tragica greca il delitto in sé non aveva alcun ruolo. I fatti di sangue non potevano essere rappresentati direttamente sulla scena e a nessun autore sarebbe mai venuto in mente di ‘ricostruire’ sul palcoscenico la dinamica dell’uccisione di Agamennone. Tutto ciò perché la rappresentazione del male doveva avere un senso, uno scopo e questi non potevano essere altro che un effetto di repulsione e un giudizio di condanna. A tal fine i particolari erano del tutto superflui. La curiosità degli spettatori non era stimolata e del delitto si riferiva solo quel tanto che bastava a suscitare la reazione emotiva. Più importante di questa era la riflessione successiva che sanciva l’estraneità del male e dei suoi agenti dall’ordine costituito, dalla divinità o dagli uomini, della comunità.
La tragedia greca non era solo uno spettacolo, ma ancor di più un momento di autoeducazione comunitaria, cui tutti prendevano parte. La civiltà greca è stata forse la più attenta ai problemi dell’educazione e agli antichi greci alcuni nostri comportamenti sarebbero sembrati scandalosamente lassisti e diseducativi. Ora, non si può pretendere che l’informazione, tutta l’informazione, debba svolgere un ruolo pedagogico, e forse ciò non sarebbe nemmeno del tutto opportuno, perché non è questo il suo compito prioritario. Quello che si può chiedere, invece, è che le agenzie propriamente educative svolgano la loro funzione essenziale di trasmissione di quei valori etici, morali e civili che la nostra tradizione, laica e religiosa, ha elaborato, non senza fatica come la storia insegna, e che possono diventare conquiste permanenti solo se su di essi ci sia un costante impegno. L’utilitarismo didattico che sembra contraddistinguere i nostri tempi dovrebbe lasciare un po’ di spazio ad una pedagogia che si occupi di ciò che Di Fazio giustamente chiama “le fondamenta stesse del nostro vivere civile”.
Salvatore Daniele
(font dell’articolo commentato: La Sicilia – Giuseppe Di Fazio, 17 ottobre 2010)