La straordinaria vita del giudice Filocleone.
A conclusione della lettura di “L’alunno del tempo. La straordinaria vita del giudice Filocleone” di Salvatore Borzì, edito dalla Casa Editrice ALGRA di VIAGRANDE, posando il libro sul tavolo e riprendendolo in mano, quasi a non volermene staccare, mi sono chiesto: “Ma che libro ho letto?”
La prima risposta, quasi ovvia, è stata: un breve ma vigoroso saggio, in forma di racconto, sugli innumerevoli casi di ‘mala giustizia’, una piaga perenne della storia umana, che talvolta si origina da complesse situazioni politiche e sociali, altre volte dall’imperdonabile negligenza di chi è investito dell’alto e arduo compito di giudicare e eventualmente condannare i suoi simili; questo libro, mi dicevo, è, in fondo, un pamphlet illuminista, in cui la vis polemica trae alimento da una minuziosa padronanza delle fonti; in più, le pagine del libro scorrono sì dense di significato, ma nitide nello stile, poetiche quando occorre, il racconto cornice è costruito con una sapiente tecnica compositiva, che sa ben variare i registri narrativi, dall’orrore della descrizione di un ambiente carcerario terribilmente degradante per reclusi e carcerieri, all’idillio della rappresentazione della natura e dei suoi benefici effetti quando l’uomo si immerge in essa.
Ma questa prima risposta non mi ha soddisfatto. Il libro di Salvatore Borzì è pervaso da una profonda emozione, che mi ha contagiato – e credo tutti gli altri lettori – che mal si concilia con un intento in fondo dottrinario, ma rivela invece intenzioni più alte. La stessa ambientazione ad Atene, culla indiscussa della nostra civiltà, ne è un segno. Ad Atene il grande poeta comico Aristofane ha creato, traendolo dalla realtà quotidiana della propria città, il personaggio di Filocleone, il fanatico, inflessibile giudice protagonista della commedia “Le vespe”. Salvatore Borzì nel suo libro gli ha donato l’immortalità, facendolo divenire, se vogliamo seguire Vico, l’’universale fantastico’, o, se seguiamo Weber, il ‘tipo ideale’, di chi si crede investito di una sacra missione, cui immola la vita propria e di chi gli sta accanto, ma che è, in realtà, una pedina in mano di chi regge un gioco più grande di lui. Purificare la società dal male, a qualsiasi costo, anche a quello altissimo e terribile di condannare un innocente – meglio un innocente condannato che un colpevole impunito, è l’opinione di tanti benpensanti – è la sacra missione di cui si sentono investiti tutti i Filocleone della storia, una missione destinata al fallimento e depauperata di ogni sacralità nella miseria della routine quotidiana, perché al di là di ogni potere umano.
L’immortalità che il nostro Autore ha concesso a Filocleone non è però un dono gratuito, ma è il mezzo con cui egli dovrà divenire giudice inflessibile di se stesso e prendere coscienza del suo errore. A questo punto ho una seconda, più precisa risposta alla mia domanda su che cosa sia la “gioiosa fatica” letteraria di Salvatore Borzì: è un ‘romanzo di formazione’, la storia di una conversione, di un cambiamento radicale (un ‘pervertimento’, lo definisce con un raffinato latinismo il nostro Autore) come quello dell’Innominato manzoniano, cui non si perviene però tutto in una volta, ma attraverso un lungo cammino di riflessione, spesso dolorosa fino al punto dell’orrore provato per se stesso, sul senso di ciò che si fa, su ciò che si è. Solo guardando in faccia il ‘negativo’ – e superandolo – in Hegel la coscienza acquista il vero sapere, in un processo che è nello stesso tempo individuale e collettivo. In questo travaglio, dal pentimento che è “il dolore di essere nato”, scrive Borzì, si perviene alla redenzione che è “l’orgoglio di essere uomo”. Così il nostro autore, con un atto di coraggio, che è anche di fede, in una temperie come la nostra di materialistico disimpegno, sedotta all’edonismo dalla magia illusoria della ‘modernità’, invita i suoi lettori alla solitudine meditativa, alla ‘socialità’ con se stessi, al viaggio interiore alla ricerca del senso che ha la propria vita su questa terra. Non è un viaggio agevole ma faticoso, la meta non è a portata di mano, non è immediatamente disponibile ma sta nascosta: perché la domanda sul senso si nutre più di dubbi che di certezze, non ammette risposte definitive, ma sempre provvisorie e cangianti. Ma per quanto di poco per volta, tuttavia essa ci permette di avanzare verso la verità, la cui esigenza ci sta accanto da sempre, e verso quel sentimento di bellezza della vita, nella cui cognizione sta la felicità. Alleata forte e fedele in questo viaggio che ci fa diventare veramente uomini è la cultura, soprattutto quella letteraria. Essa è l’‘Anima del mondo’, il ‘ricettacolo’ di tutto ciò che gli uomini hanno pensato e sofferto, dei desideri, emozioni, speranze, paure, angosce, delle vittorie e delle sconfitte, ma soprattutto delle risposte che essi hanno dato alle nostre stesse domande di senso, risposte che possono esserci di grande aiuto nel nostro personale cammino. La letteratura è l’attività della mente e del cuore che trasforma il tempo cronologico in tempo propriamente umano, che anzi, in quest’opera di umanizzazione del tempo, ne annulla l’effetto distanziante che deriva dal suo inesorabile scorrere, rendendoci così tutti contemporanei. L’esperienza di Aristofane dei tribunali del suo tempo diventa la mia esperienza: ecco perché possiamo essere tutti ‘alunni del tempo’. Alcuni grandi hanno tratto un insegnamento dal loro tempo e lo hanno messo, fissando i pensieri in parole, a nostra disposizione.
A questo punto credo di poter azzardare un’ipotesi interpretativa ancora più adeguata del libro di Salvatore Borzì.
Che cos’è per un classicista come il nostro Autore un viaggio solitario in Grecia, se non un viaggio nella propria interiorità, alla cui costruzione hanno contribuito i grandi del pensiero antico, tragitto carico di quella emozione che pervade tutto il suo libro? In Grecia, seppure anch’essa deturpata dagli orrori della modernità, con un po’ di fantasia è facile incontrare il giudice Filocleone di Aristofane o i laboriosi contadini di Esiodo, come narra il racconto cornice, è facile anche immaginare di discutere con il primo della politica ateniese del suo tempo, con la scorta del grande racconto tucidideo, o di sentire i gioiosi canti di lavoro dei secondi. A mio avviso, il nostro Autore vuole narrarci il romanzo della sua formazione, vuole farci partecipi delle risposte che egli ha cercato di dare alle sue richieste di senso. E queste risposte le trova nella saggezza antica, perenne dei classici che egli ha frequentato fin da ragazzo. Questa antica saggezza ci insegna che esiste un ordine che fa del mondo, invece che un caos, un cosmo, dove ogni cosa trova un posto determinato, secondo una regola; tale ordine legiforme si manifesta a noi, non senza una ricerca che impegni mente e cuore, nella natura, al cui ordine una falsa idea di modernità vorrebbe sostituire con la violenza il disordine voluto dagli uomini. Tale violenza è ciò che gli antichi Greci chiamavano hybris, ‘tracotanza’, la colpa più grave di cui può macchiarsi un uomo, ossia il credersi superiore all’ordine insito nelle cose e quindi in diritto di trasgredirlo; a ciò non può che seguire, inevitabile, una punizione. L’accettazione e il rispetto di quest’ordine, di cui il dolore e la fatica, soprattutto quella dovuta al lavoro, fanno parte integrante, sono ciò da cui invece derivano la dignità dell’uomo e costituiscono le premesse della sua felicità, quella almeno che gli è concessa – ecco il motivo della gioia provata dai contadini incontrati dal Nostro, pur nel pieno del loro quotidiano sforzo.
Ma cosa c’entra, ci si può chiedere, tutto ciò con la ‘mala giustizia’? La risposta è: la ‘mala giustizia’ è una forma di hybris, in quanto costituisce una gravissima, ingiustificabile violazione della dignità umana, perpetrata, con una stridente contraddizione, proprio in nome di quella giustizia che della dignità umana dovrebbe essere la massima tutela. Tutti i Filocleone della storia si macchiano di hybris quando pretendono, in virtù del potere di cui sono investiti – che in realtà dovrebbe essere un servizio, carico di una tremenda responsabilità – di essere superiori ai loro simili; quando si credono di essere i numi tutelari della ‘purezza’ della società, che, secondo il compito che si sono attribuiti, devono tenere pulita di ogni macchia. Ma, parafrasando il filosofo Karl Popper, chi vuole realizzare il paradiso in terra, in realtà appresta l’inferno per i propri simili. E l’inferno in terra si concretizza anche nel fatto di condannare, per dolo o mera negligenza, un innocente pur di avere un colpevole, privando così un uomo della sua libertà, di quella che era la sua vita, privazione che non consente alcun risarcimento, costringendolo a vegetare recluso in ambienti carcerari certe volte infami. È hybris violare la inviolabile dignità di ogni uomo, ridurlo a cosa, “disumanarlo”, come scrive, con un termine terribilmente calzante, il nostro Autore, qualsiasi reato egli abbia commesso – come sancisce l’Articolo 27, comma terzo, della nostra Costituzione; che la ferocia della pena non costituisca un deterrente al delitto lo sosteneva già nel 427 a.C. Diodoto, personaggio tucidideo, in un discorso dinanzi all’assemblea ateniese, perché il reo nel commettere un delitto spererà sempre di farla franca. È hybris anche ritenere la legge degli uomini, mutevole e sempre relativa alle varie circostanze politiche e sociali, comunque superiore a quella legge che l’uomo porta inscritta nella propria coscienza, far prevalere l’aspetto formale sulla sostanza. Per soddisfare l’innata sete di giustizia di ogni uomo, che è cosa diversa dal desiderio di vendetta, come concordano Protagora e Platone, sarà buon giudice chi si riterrà uomo fra gli uomini, chi con senso di umiltà e non di superiorità o fanatismo, sarà sempre consapevole dei propri limiti e quindi agirà con prudenza e scrupolo. La giustizia deve mantenere il legame con la vita e il giudice dovrà sempre tener presente che dietro ogni caso giuridico si cela un caso umano: solo così potrà adempiere al suo ufficio che consiste, scrive il nostro Salvatore Borzì, “nel mediare fra vita e diritto”.
Credendo di aver fornito una risposta sufficientemente adeguata alla mia iniziale domanda su cosa sia “L’alunno del tempo. La straordinaria vita del giudice Filocleone”, riponendo il volume sul tavolo, nell’attesa di riprenderlo, non mi resta che consigliarne a tutti la lettura, che auguro piacevole e proficua.
Salvatore Daniele