Indiani e cowboy di carta in mostra a Etna Comics. L’intervista a Bruno Caporlingua

Caporlingua: “Badate. Il western non è solo Tex o Magico Vento, o Zagor, o Ken Parker”.

Bruno Caporlingua è un anestesista in pensione ed sperto di fumetti. Membro del Consiglio Direttivo dell’ANAFI (Associazione Nazionale Amici del Fumetto e dell’Illustrazione), una delle prime associazioni di collezionisti d’Italia, nonché membro del Comitato Scientifico della Fondazione Marco Montalbano con sede a Viagrande che si occupa di divulgazione a tema fumettistico. Ha curato mostre e pubblicazioni sul fumetto di fantascienza pre e post bellico, sulla scuola francobelga e sul fumetto statunitense dagli anni ’60 in avanti.
Oggi lo incontriamo in qualità di curatore della mostra “Indiani e Cowboy di Carta” a Etna Comics – ottava edizione.

A cosa si deve il successo post bellico del fumetto western?

«Il successo del fumetto western post bellico nasce dal fatto che l’Italia usciva distrutta dalla guerra. Arrivano gli alleati che portano fumetti, arrivano i film western, e dove c’era fantasia? Gli italiani la potevano trovare solo sul genere avventuroso western e piano piano questi personaggi hanno cominciato a prendere piede. Nella mostra ho cercato di fare vedere come autori oggi ritenuti maestri della “nona arte”, hanno iniziato proprio, quasi tutti, a fare fumetti western. C’è un’ampia esposizione di questi autori che hanno iniziato però facendo un western poco documentato, con nomi inglesi di località e di personaggi inventati. E quindi erano dei soggetti scritti semplicemente per divertire, per intrattenimento. Non c’era nessun sottofondo, tranne nei racconti del periodo bellico in cui, ad esempio, troviamo la vignetta finale di un fumetto dove si inneggia l’operosità del popolo italiano nel far west: all’epoca, tutti i personaggi dei fumetti avventurosi dovevano essere di origine italiana che, in qualsiasi parte del mondo andavano, tenevano alta la bandiera del fascismo e quindi dell’italianità. Spesso arrivando a cose assurde, tipo chiamare un Maresciallo Rossi una giubba rossa canadese».

Sergio Bonelli Editore nel 1948 pubblica la prima edizione di TEX, seguito da Capitan Miki (1951) Blek Macigno (1954) e Cocco Bill (1957), ma TEX è il fumetto che ancora oggi tiene testa: perché?

«Allora. Io volutamente ho parlato poco e di sfuggita di Tex perché su Tex si è scritto e si è detto tantissimo e si continuerà a parlare ancora tantissimo. A me, quello che premeva invece era fare vedere ai visitatori cosa c’era del western prima di Tex perché nessuno sa che c’erano degli ottimi autori tipo Rinaldo Dami (Roy D’Amy, n.d.a.), Raffaele Paparella, Walter Molino: grazie a loro c’è stato nell’immediato dopoguerra un crescendo di pubblicazioni a volte anche stampate male, in pochi numeri, cambiavano la ragione sociale a secondo le convenienze. Cioè, era un momento di assoluto caos per l’editoria italiana oltre che nella vita sociale e politica in quel momento».

Esattamente un po’ come adesso…

«Beh, in quel caso in misura maggiore perché l’Italia ne usciva distrutta da una guerra molto pesante soprattutto dal ’43 in poi, quando arrivarono gli angloamericani e ci fu la guerra contro i tedeschi. E a me, quello che premeva era lanciare un messaggio: “Badate. Il western non è solo Tex o Magico Vento, o Zagor, o Ken Parker”. C’erano anche questi altri personaggi bellissimi, per esempio Pecos Bill, personaggio disegnato da Raffaele Paparella e Pierlorenzo De Vita, scritto da un professore Vito Martina. Era un fumetto dove non c’era violenza e, al contrario, di tantissima produzione. Era disegnato benissimo, tanto che queste edizioni che erano della Mondadori, nei credits, erano specificati come pittori e non come disegnatori, illustratori. (Pecos Bill, n.d.a.) era basato su delle trame un po’ fantastiche. Ma ci sono tanti altri personaggi più crudi, più sanguinolenti. Il più famoso di tutti è di origine francese, “Big Bill le casseur”, che fu tradotto e portato in Italia da Giovanni De Leo, un genovese che era diventato amico e socio di Gianluigi Bonelli quando ancora non pensava a Tex. Siamo agli inizi degli anni ’40. Questo per dire che tutti si lanciavano a fare western, spesso alcuni sono veramente dozzinali e si vede, sia come storie che come disegni. Ma ce ne furono una miriade, tanto da risultare secondo me anche impossibile da catalogare tutti. Spesso uscivano pochi numeri, segnati male, di cui nessuno sa niente».

Lei a quale fumetto è maggiormente legato?

«A me piace Cocco Bill di (Benito, n.d.a.) Jacovitti, un genio assoluto della satira. Quando uscì avevo 7 anni e lo leggevo. Sì, leggevo anche Tex e devo ammettere che ritagliavo le strisce. Che a pensarci oggi mi taglierei io le mani per quello che ho fatto! Carini erano anche Capitan Miki e Blek Macigno che ha avuto un successo in Europa strepitoso. Hanno continuato a produrlo in Francia quando qua in Italia non lo facevano più, anche con disegnatori francesi».

Conservare memoria storica del fumetto è importante perché?

«È importante perché aiuta a capire meglio il fumetto di oggi che è totalmente differente, oberato troppo dal cervello, mentre quelli del passato erano fumetti sicuramente più “bambineschi” che però servivano a far sognare, a fare evadere senza pensieri, senza stare lì ad arrovellarsi. Invece adesso, i giovani lettori, sui social, fanno tutta un’esegesi di ogni vignetta che a un certo punto dici: “Io voglio leggere un fumetto per divertirmi, per svagarmi un poco e uscire dalla realtà”. Poi vedo tutti questi fumetti pieni zeppi di problematiche pari a quelle che viviamo ogni giorno… Per questo a me piacciono molto i fumetti del passato e mi piacerebbe che i giovani riscoprissero questi personaggi».

Etna Comics offre anche questa possibilità.

«Io ringrazio sempre Antonio Mannino e Marco Grasso di Etna Comics che mi permettono ogni anno anno di fare una mostra storica sul fumetto, per presentare personaggi e autori che oramai sono caduti nel dimenticatoio proprio perché i collezionisti di oggi e i giovani lettori sono degli ottimi conoscitori, ma sul fumetto antecedente agli anni ’60 sanno pochissimo e spesso per loro è una scoperta».

FONTE ORIGINALE: L’Urlo, Debora Borgese, 31 maggio 2018

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