I versi di Enzo Bruno risuonano all’unisono come un coro a bocca chiusa che, discreto e umile, innalza potente un inno alla vita e all’amore. Vivi ed ama / come se fosse la prima volta, consiglia in un testo che reca l’emblematico titolo di Il sipario. Sono innumerevoli i passi in cui il poeta sottolinea la bellezza della vita e invita il prossimo ad amarla, non indugiando nella tristezza e nella disperazione: prendi il mio posto / vivi la gioia che c’è dentro me.
Enzo Bruno nasce il 31 gennaio 1960 a Motta Sant’Anastasia (CT). Conseguito il diploma di Geometra, intraprende la carriera militare, scelta che non abbandonerà più e che lo renderà protagonista di numerose missioni umanitarie (Albania, Kosovo, Ucraina, Libano). Nel 1983 sposa Giusy, la sua “nasino all’insù”, e dalla loro unione nascono Domenico e Fabrizio. L’amore per la famiglia, la dedizione al lavoro, visto come luogo di conoscenza, condivisione e crescita personale, nonché il costante bisogno di aiutare gli altri caratterizzano gli anni centrali della sua vita. Nel 2012 gli viene diagnosticato un melanoma, dura prova che Enzo vive con coraggio, forza e dignità fino al 28 giugno 2014, giorno della sua morte. Gli ultimi anni, allietati dalla nascita del nipotino Alessandro, sono contraddistinti da una forte gioia nel godere della quotidianità, dell’amore per la famiglia, e da una costante produzione poetica che sfocia nella pubblicazione del libro Prendi il mio posto e io ti capirò.
Prefazione di Orazio Caruso
Ho conosciuto Enzo Bruno in prima media, a Viagrande e siamo diventati subito compagni inseparabili, quasi come fratelli. E non poteva andare diversamente: Enzo possedeva tutte le qualità che ne facevano, per me, l’amico ideale: un’aria forestiera (la sua famiglia tornava dal Nord e lui parlava solo in italiano), tutti i volumi illustrati della grande enciclopedia del “Sapere”, sua madre ci metteva a disposizione un tavolo enorme per fare i compiti, ma soprattutto un’innata purezza e sensibilità d’animo che non aveva eguali negli altri coetanei del paese.
Abbiamo trascorso gli anni della scuola media, i più delicati e incidentati, a fare lo slalom fra professoresse demoralizzate o arrabbiate (mogli di medici o figlie di avvocati), che si sentivano declassate ad istruire gli zotici marmocchi di un piccolo centro etneo, compagni ripetenti determinati ad ostacolare qualsiasi tipo di lezione e impegnati in modo metodico a distruggere i bagni dell’istituto scolastico e alcuni bidelli che aizzavano risse e si divertivano con gli studenti come allibratori messicani con i galletti da combattimento. Tutto ciò ci ha fatto crescere più forti e solidali, magari con poco studio e un treno di sogni.
Anche quando abbiamo scelto indirizzi liceali diversi, la nostra amicizia è proseguita, approfondendosi nell’epica e indimenticabile esperienza della radio libera che ci ha visti ancora insieme in un nuovo percorso di esaltante esplorazione e maturazione esistenziale.
In quel periodo Enzo si è innamorato, la prima ed unica volta in vita sua; in un modo così appassionato e totale che non trova affinità nella realtà, ma solo nelle grandi narrazioni della letteratura romantica. Per aggirare i divieti arretrati di un padre all’antica, Enzo faceva abuso del telefono. Non c’erano ancora i cellulari, internet ed i social network, c’erano però le cabine della Sip, dislocate nei luoghi più disparati del paese: Viscalori, Scalatelle, Piano Gelsi, Piano Croce. Con un solo gettone egli restava ore ed ore a intrattenersi con la sua ragazza, come un novello Romeo sotto il balcone di Giulietta, a sperare in una notte/conversazione senza fine, a inventare nomi nuovi delle rose e a chiedere, come Catullo, migliaia di baci.
Probabilmente fu per causa sua, se l’allora azienda telefonica di stato, alla fine, ha introdotto gli scatti anche nelle telefonate urbane.
Già in quegli anni scriveva poesie, ma di rado, per pudore, le faceva leggere; ogni tanto dei frammenti fuoriuscivano dalle antologie scolastiche o da quaderni spiegazzati. Così oggi, con soddisfazione, ma non con stupore, apprendo che egli ha coltivato la sua antica passione e che anzi l’ha incrementata nei tempi ultimi e difficili.
Leggendoli ora, i versi di Enzo Bruno risuonano all’unisono come un coro a bocca chiusa che, discreto ed umile, innalza potente un inno alla vita e all’amore. “Vivi ed ama / come se fosse la prima volta.” consiglia in un testo che reca l’emblematico titolo di “Il sipario”. Sono innumerevoli i passi in cui il poeta sottolinea la bellezza della vita e invita il prossimo ad amarla, non indugiando nella tristezza e nella disperazione: “prendi il mio posto / vivi la gioia che c’è dentro me”.
Non troveremo in queste pagine effettacci retorici e maliziosi tipici dei poeti esibizionisti del sabato sera che declamano versi come banditori di piazza. Questa è una poesia fatta in casa, come il pane buono, che sfida il silenzio (“e intanto il silenzio ascolta i battiti dei nostri cuori”) e si pone in ascolto degli interrogativi che salgono dalle profondità insondate dell’anima e li fa propri, offrendoli al colloquio con l’altro. Chi come me ha conosciuto Enzo riconosce il timbro della sua voce pura e inconfondibile. Non può non sentirne la vicinanza “per la vita oltre la vita”.
Questo è un piccolo libro dei conti con se stesso, scritto per dire in modo onesto, dignitoso, ciò che si è ricevuto e ciò che si è dato, quanto si può ancora dare e cosa si può lasciare in eredità.
Questo è un libro che testimonia ciò che un uomo è, con le proprie debolezze, passioni, amori, forze e riflessioni; un uomo che, a testa alta e senza infingimenti, approda al senso ultimo dell’esistere, lasciando un’impronta di umanità e verità.
La poesia funziona sempre come attrezzo per smontare il male, per comprendere ed elaborare il dolore, è l’ultima monetina rimasta in tasca al giocatore incallito, la preghiera della sera che riconcilia col mondo, mette in ordine i valori e fortifica l’esistenza.
La vita… la vita proietta distanze nel procedere delle stagioni. Prendendo in mano questo libro io mi risiedo accanto a quel vecchio compagno di banco, a quel ragazzo gentile, a quell’amico fragile, a quell’angelo senza spada che, in una mattinata d’inverno in terza media, in un’aula grigia, non ha esitato un attimo ad incolparsi di una colpa non sua per sottrarre me ed altri due compagni di classe da una sicura, ma non meritata, sospensione scolastica.
Orazio Caruso