Qualche giorno fa, nei locali del centro di ricerca e formazione teatrale Viagrande Studios, nell’ambito del Festival FranceDanse 2013, si sono esibite -unica data italiana- due eccellenze della danza contemporanea sudafricana, danzatrici e coreografe ed esponenti del femminismo sudafricano. Per Argo è andata a seguire l’evento, organizzato in collaborazione con Institut Francais Italia, Ambassade de France in Italia, Fondazione Nuovi Mecenati, Clotilde Pecora Caruso, laureata in Scienze politiche, specializzata in Politiche sociali e mediatrice culturale.
L’identità nei suoi molteplici aspetti è stata protagonista il 10 novembre scorso ai Viagrande Studios : identità individuale, sociale, violata, negata. Ottimo il debutto della neonata compagnia Isola Quassùd Liquid Company diretta da Emanuela Pistone.
Ex abrupto una babele di lingue avvolge gli astanti mentre si accostano l’uno all’altro corpi di uomini e donne, viaggiatori e viaggiatrici, migranti in balia di un destino che non sempre è scelto, alla ricerca di un luogo altro in cui vivere tra mondi e culture diverse .
Gli interpreti dell’Opening Act “Life is Beautiful” vengono dal Pakistan, Bangladesh, Filippine, Eritrea, Sudan, Senegal; sono identità sincretiche che passando da un codice linguistico e culturale ad un altro si adattano a cambiare di continuo ritmi e modi di vivere e abitano uno spazio tra culture e tradizioni.
Lo stesso spazio che invece è stato negato ai morti del Mediterraneo, vite spezzate alle quali gli attori rendono omaggio e danno voce e corpo in una preghiera corale e poesia d’amore e di denuncia dell’intera umanità responsabile, nessuno escluso.
Peccato che l’esibizione sia avvenuta nel piccolo spazio all’ingresso del locale, talmenteesiguo da impedire la visione completa a buona parte del pubblico.
Discorso diverso per le performances delle due danzatrici e coreografe, note attiviste del femminismo sudafricano post apartheid, creatrici di linguaggi di corpi in storie di forte significato sociale, avvenute, queste, nello spazio teatrale vero e proprio.
In “Hatched” lavoro autobiografico di Mamela Nyamza l’incipit è di grande effetto: spalle al pubblico e schiena nuda, l’ansimare della fatica, la gonna piena di pinze da bucato, in testa un fardello di roba da stendere su un filo teso, rituali domestici e familiari, gesti quotidiani che si ripetono sistematicamente, gabbia da cui fuggire.
Rosso è il colore dominante sulla scena, rossa è la rete al centro, rossi i panni stesi, rosso come sangue ma anche forza di volontà, fiducia in sé, fierezza e orgoglio. L’incedere lento nei movimenti è riflessione sui dolori e sulle sofferenze dell’essere donna e/o madre, è ricerca della propria identità individuale prima e sociale poi, nella consapevolezza che donna si diviene e non si nasce.
E’ una sfida ad un destino già scritto e la storia di una liberazione condotta con grande coraggio e determinazione per raggiungere la piena liberazione.
In “They look at me and that’s all they think “ Nelisiwe Xaba ci racconta la storia dell’ottentotta Saartjie Baartman detta Sara, vissuta nei primi ottocento e costretta ad esibirsi come fenomeno da baraccone, toccata e palpeggiata nei salotti e nelle fiere da uomini e non solo, spinti dalla morbosa curiosità di conoscere un corpo così lontano dai canoni della cosiddetta normalità occidentale.
Sara e le donne come lei avevano glutei accentuati e genitali estesi cui gli occidentali avevano dato il nome di ”grembiale genitale ottentotto”. Nelisiwe canta in scena . Anche Sara dicono che cantasse; la gente che andava a spiarla sotto i vestiti non era però interessata alla sua voce ma solo alle sue parti intime.
Sara si conformò all’altrui sguardo, alle voglie degli altri, gli “spettatori” che volevano vederla spogliata pure della sua identità di donna Khoikhoi e non cantò mai: fu violata fisicamente e psicologicamente, non fu considerata una persona ma una cosa, mero oggetto di ilarità e di piacere per gli uomini di ogni età.
Bianco è il colore del costume di scena a simboleggiare la purezza d’animo di Sara e la sua ingenuità nel credere alle promesse.La pièce contiene anche qualche momento ironico: in un cartone animato si vede Sara da un parrucchiere; costui le taglia a zero la chioma che mette in vendita come parrucca, mostrandola in vetrina.
La parte dominante è però la violazione fisica e morale subita da Sara che rimanda a tutte le violenze perpetrate ancor oggi sul corpo delle donne in una storia che si ripete all’infinito.
Sara simbolo di oppressione coloniale e patriarcale, doppiamente oppressa come donna e come nera, Venere Paleolitica, con le sue forme strabordanti, Dea Madre della società matriarcale che la storia ufficiale della cultura patriarcale bianca occidentale tenta di gettare nell’oblio della memoria collettiva.