di Stefano Rodotà, da Repubblica, 23 ottobre 2013
So bene quanto sia difficile, oggi in Italia, una discussione ispirata a criteri di ragione e rispetto. È quel che sta accadendo per il tema della riforma della Costituzione. Ma questo non deve indurre a ritrarsi da una discussione che trova talora toni sgradevoli. Impone, invece, di fare ogni sforzo perché una questione davvero fondamentale possa essere affrontata in modo rispettoso dei dati di realtà e delle diverse posizioni in campo.
Quel che si sta discutendo è l’assetto futuro della Repubblica, l’equilibrio tra i poteri, lo spazio stesso della politica, dunque il rapporto tra istituzioni e società delineato dalla Costituzione, il patto al quale sono consegnate le ragioni del nostro stare insieme. Tuttavia, prima di affrontare questioni così impegnative, è necessario ristabilire alcune minime verità.
Nell’affannosa ricerca di argomenti a difesa della strada verso la revisione costituzionale scelta da governo e maggioranza, infatti, si sta operando un vero e proprio stravolgimento della posizione di alcuni critici di questa scelta. Premono le ragioni della propaganda e così si alzano i toni, con una mossa rivelatrice dell’intima debolezza delle proprie ragioni. Spiace che in questa operazione si sia fatto coinvolgere lo stesso presidente del Consiglio, che non perde occasione per additare i critici come quelli che vogliono rendere impossibile la riduzione del numero dei parlamentari, l’uscita dal bicameralismo paritario, la riscrittura dello sciagurato titolo V della Costituzione sui rapporti tra Stato e Regioni.
Ripeto: questa è una assoluta distorsione della realtà. Fin dall’inizio di questa vicenda, di fronte al “cronoprogramma” del governo era stato indicato un cammino diverso, che sottolineava proprio la possibilità di una rapida approvazione di riforme per le quali esisteva già un vasto consenso sociale, appunto quelle ricordate prima. Se governo e Parlamento avessero subito seguito questa indicazione, è ragionevole ritenere che saremmo già a buon punto, vicini ad una dignitosa riscrittura di norme della Costituzione concordemente ritenute bisognose di modifiche. Come si sa, è stata scelta una strada diversa, tortuosa e pericolosa, con variegate investiture di gruppi di “saggi” e con l’abbandono della procedura di revisione indicata dall’articolo 138 della Costituzione. I tempi si sono allungati e i contrasti si sono fatti più acuti.
Questo non è un dettaglio, come vorrebbero farlo apparire quelli che, con sufficienza, invitano a guardare al merito delle proposte e a non impigliarsi in questioni meramente procedurali. Quando si tratta di garanzie, la regola sulla procedura è tutto, dà la certezza che un obiettivo così impegnativo, come la revisione costituzionale, non venga piegato a esigenze strumentali, a logiche congiunturali. È proprio quello che sta avvenendo, sì che non è arbitrario ritenere che la strada scelta nasconda un altro proposito – quello di agganciare a riforme condivise anche una forzatura, riguardante il cambiamento della forma di governo.
È caricaturale, e improprio, descrivere la discussione attuale come un conflitto tra conservatori e innovatori. Si stanno confrontando, e non da oggi, due linee di riforma. Di fronte a quella scelta da governo e maggioranza non v’è un arroccamento cieco, un pregiudiziale no a qualsiasi cambiamento. Vi è una proposta diversa, che può essere così riassunta: rispetto della procedura dell’articolo 138, avvio immediato delle tre specifiche riforme già citate, mantenimento della forma di governo parlamentare rivista negli aspetti che appaiono più deboli.
Torniamo, allora, alle questioni più generali. Da alcuni anni si è istituita una relazione perversa tra emergenza economica, impotenza politica e cambiamenti della Costituzione. Con una accelerazione violenta, e senza una vera discussione pubblica, nel 2012 è stata approvata una modifica dell’articolo 81 della Costituzione, prevedendo il pareggio di bilancio. Allora si chiese, invano, ai parlamentari di non approvare quella riforma con la maggioranza dei due terzi, per consentire di promuovere eventualmente un referendum su un cambiamento tanto profondo. La ragione era chiara. Si parla molto di coinvolgimento dei cittadini e si dimentica che quella maggioranza era stata prevista quando la legge elettorale era proporzionale, dando così garanzie in Parlamento che sono state fortemente ridotte dal passaggio al maggioritario.
Oggi la stessa richiesta viene rivolta ai senatori che si accingono a votare in seconda lettura la modifica dell’articolo 138. Vi sarà tra loro un gruppo dotato di sensibilità istituzionale che accoglierà questo invito, affidando anche ai cittadini il giudizio sulla sospensione di una procedura di garanzia che altri, in futuro, potrebbero utilizzare invocando qualche diversa urgenza o emergenza? Non basta, infatti, aver previsto un referendum alla fine dell’iter della riforma finale, se rimane un dubbio sulla correttezza del modo in cui quel cammino è cominciato. La discussione sul merito delle proposte assume significato diverso se queste non alterano l’impianto costituzionale e sono già sorrette da consenso sociale, come quelle più volte citate, o se invece implicano un mutamento della forma di governo.
Per quest’ultima, nella relazione del Comitato dei “saggi” sono state fatte due operazioni. In via generale, sono state legittimate tre ipotesi tra loro ben diverse. E poi si è indicata tra queste una sorta di mediazione, definita come “forma di governo parlamentare del Primo Ministro”, che in realtà introduce un presidenzialismo mascherato, costituzionalizzando l’indicazione sulla scheda del candidato premier e ridimensionando così il potere di nomina da parte del presidente della Repubblica e quello del Parlamento di dare la fiducia. Ha detto bene Gaetano Azzariti sottolineando che così si realizza «l’indebolimento della forma di governo parlamentare e il definitivo approdo in Costituzione delle pulsioni presidenziali». Una politica debole cerca così una scorciatoia efficientista attraverso un accentramento/ personalizzazione dei poteri e sembra rassegnarsi ad una crisi dei partiti che, incapaci di presentarsi come effettivi rappresentanti dei cittadini, non sono più in grado di cogliere la pienezza del ruolo dell’istituzione in cui sono presenti, il Parlamento, alterando così gli equilibri costituzionali.
Ma l’assunzione della logica dell’emergenza e della pura efficienza svuota lo spazio costituzionale di tutto ciò che si presenta come “incompatibile” con essa. I diritti fondamentali sono respinti sullo sfondo e si perde il loro più profondo significato, in cui si esprime non solo il riconoscimento della persona nella sua integralità, ma un limite alla discrezionalità politica che, soprattutto in tempi di risorse scarse, deve costruire le sue priorità partendo proprio dalla garanzia di quei diritti. Sbagliano quelli che, con una mossa infastidita, dichiarano l’irrilevanza della discussione sulle riforme di fronte ai bisogni reali delle persone. Questi vengono sacrificati proprio perché la politica ha perduto la sua dimensione costituzionale, e fa venir meno garanzie in nome di un’efficienza tutta da dimostrare, come accade per il lavoro. Se non si coglie questo nesso, rischiano d’essere vane anche le iniziative su questioni specifiche, e i lineamenti della Repubblica verranno stravolti assai più di quanto possa accadere con un mutamento della forma di governo.