Cena washingtoniana: intorno ad un tavolo ferve la discussione sulle imminenti elezioni presidenziali. Una coppia di democratici sostiene che il risultato finale è molto incerto anche se Obama è in leggero vantaggio. Poi ci sono due repubblicani. Lui non apre bocca. Lei, texana e donna in carriera, è schierata con Romney perché è un buon manager. Al termine della serata prende la parola un’amica giornalista, da sempre simpatizzante di sinistra, che dichiara: “Obama è un arrogante, incapace di dialogare e di arrivare ad un compromesso con i repubblicani“. La frase ci sorprende perché viene pronunciata da una donna che ammiriamo per il suo spessore culturale e professionale. E ci chiediamo sulla base di quali elementi la nostra amica abbia condensato questo suo lapidario giudizio.
La propaganda negativa fatta di videoclip da trenta secondi lascia sedimentazioni in ogni persona che venga esposta involontariamente alla televisione. La nostra conoscente non è certo un’appartenente alla categoria di coloro che si fanno lavare il cervello dall’elettrodomestico e deve avere in qualche modo e sulla base di fonti a lei vicine modificato il suo punto di vista di quattro anni fa quando, entusiasta, votò per il giovane senatore Barack Obama. Di errori in questi quattro anni il Presidente può averne fatti molti. Gli si rimprovera di essersi circondato di assistenti e consiglieri che avevano ed hanno una visione “parrocchiale” ovvero provinciale della politica. Del resto il turnover nelle fila del gabinetto Obama è stato molto accentuato.
Ma non riusciamo a comprendere le accuse che gli vengono mosse di non essere stato in grado di favorire il compromesso con i repubblicani sui temi più spinosi della quotidianità americana e mondiale. Proprio quei repubblicani che per opera dei loro massimi rappresentanti ebbero a dichiarare che lo scopo del loro impegno era quello di far sloggiare l’inquilino della Casa Bianca.
La verità è invece che una forsennata politica di opposizione condotta dal GOP ad ogni livello contro l’attuale White House ha portato ad una estrema polarizzazione della società americana. Lasciando ad una pattuglia di poche centinaia di migliaia di votanti degli stati incerti l’arduo impegno di decidere chi sarà l’uomo più potente del pianeta per i prossimi quattro anni. Lo stesso Romney, che come governatore era stato accusato dai suoi compagni di partito di essere troppo liberal, ha dovuto fare marcia indietro sotto la spinta e il condizionamento dell’ala estrema del Partito Repubblicano ormai pervaso dal populismo del Tea Party.
Sembra che abbiano già votato 25 milioni di cittadini, approfittando dello “absentee vote” e dello “early vote”. Le televisioni ci hanno fatto vedere lunghe file di persone in paziente attesa ai seggi aperti per questa forma di voto anticipato utilizzata soprattutto dalle minoranze e da chi non vuole o non può utilizzare un permesso elettorale perdendo una giornata di lavoro che viene considerata in conto ferie, venendo così a ridurre quegli scarsi dodici giorni che sono la media nazionale delle vacanze di un americano che abbia un lavoro.
Risultati l’amministrazione Obama ne ha ottenuti a cominciare dall’eliminazione di Osama Bin Laden, la costante, anche se non impetuosa, creazione di posti di lavoro in controtendenza con il disastro economico e finanziario lasciato in eredità da George W. Bush, la chiusura della guerra in Iraq e quella prossima ventura in Afghanistan che hanno rappresentato un immenso drenaggio di risorse e vite umane degli Stati Uniti. Si aggiunga il salvataggio dell’industria automobilistica nonostante la competizione dei tedeschi e degli asiatici.
Ma l’americano medio ha memoria corta. Quello che gli interessa è, ovviamente, il portafoglio, secondo il noto motto coniato nelle elezioni del 1992 da James Carville consigliere dell’allora giovane candidato Clinton: “It’s the economy, stupid!”
Ma secondo noi e molti altri vi è poi una ragione di fondo che stinge nell’irrazionale e che comunque avvolge metà degli aventi diritto al voto in America: alla Casa Bianca non deve rimanere un nero.