L’incidenza dei tumori neuroendocrini (NETs dall’inglese neuroendocrine tumors) negli ultimi dieci anni è cresciuta del 2%, con una media di 8-10 casi ogni centomila abitanti, ovvero 2.500 nuovi malati all’anno in Italia. Questa patologia colpisce sia gli uomini sia le donne, adulti e bambini. Sono comunque più comuni nella fascia d’età tra i 50 e i 60 anni.
Il dottor Dario Giuffrida, direttore del dipartimento di Oncologia dell’Istituto oncologico del Mediterraneo di Viagrande (Catania), spiega: «Si tratta di carcinomi le cui cellule hanno caratteristiche comuni alle cellule nervose ed endocrine e sono in grado di produrre sostanze di tipo ormonale o simil-ormonale che possono manifestare sindromi specifiche. Nel 70% sono più diffusi quelli gastro-entero-pancreatici e toracici, ma possono interessare ogni organo e tessuto. Un tempo appartenevano alla categoria dei tumori rari per la loro bassa frequenza, ma negli ultimi dieci anni l’incidenza è aumentata notevolmente rispetto ad altri tipi di tumore (mammella, polmone, colon)».
È ancora molto difficile riconoscere un malato con tumore neuroendocrino, perché è un carcinoma silente per anni, che cresce lentamente e spesso diventa metastatico prima di essere sintomatico.
«I sintomi con cui questi tumori si presentano sono spesso aspecifici e ciò può condizionare nel 60-65% dei casi un ritardo nella diagnosi. Circa il 35-40% di questi tumori manifesta una sintomatologia abbastanza specifica ma difficile da interpretare, che può essere data da diarrea, arrossamenti cutanei (flushes) al volto, al collo e alla parte anteriore del torace, accompagnati da tachicardia, vomito e dolori addominali. Quando si presentano questi sintomi e la diagnostica comune non riesce a mettere in evidenza o a chiarire il quadro clinico, alla base ci potrebbe essere un tumore neuroendocrino».
Le cause della malattia non sono ancora note, ma l’accresciuta incidenza ha favorito un aumento dell’attenzione verso questa patologia, grazie al ricorso a nuove tecniche di laboratorio e all’uso di molecole con un impatto favorevole sulla malattia.
«Il 70% di questi tumori ben differenziati può trarre giovamento anche in termini di riduzione di massa dagli analoghi della somatostatina. In questi anni oltre alla chemioterapia (che viene riservata alle forme scarsamente differenziate o in progressione avanzata), un altro approccio terapeutico è quello delle terapie a bersaglio molecolare che stanno dando ottimi risultati. La chemioterapia si basa sulla morte della cellula e quindi blocca quelli che possono essere i sistemi di controllo del Dna. Però il suo limite è l’aspecificità, perché colpisce tutte le cellule che si riproducono velocemente, sia neoplastiche, sia sane. La terapia a bersaglio molecolare invece è mirata. Ciò significa che il suo meccanismo d’azione è specifico solo per il bersaglio contro cui è diretta e che è presente soltanto nelle cellule tumorali. Il bersaglio può essere un recettore presente sulla superficie o all’interno della cellula neoplastica: in entrambi i casi si tratta di componenti indispensabili per la crescita della cellula, che sono bloccati e non possono più svolgere la loro azione».
Oggi sono disponibili strategie terapeutiche che permettono, se gestite in maniera adeguata e con un approccio integrato, di assicurare al malato una lunga sopravvivenza e una buona qualità di vita. Questa particolare tipologia di tumore necessita della messa a punto di sostante specificamente efficaci contro la sua composizione genetica.
«Tra i farmaci chemioterapici più attivi ricordiamo la streptozotocina, la dacarbazina, la temozolamide e i derivati del platino. Lo sviluppo di farmaci che hanno meccanismi d’azione molto più selezionati può permettere un’efficacia maggiore e una riduzione della tossicità, tenendo conto che potrebbe essere utile arrivare all’utilizzo di farmaci sulla base di prove di vitalità o di mortalità indotte sulle cellule tumorali. Si potrebbe arrivare a terapie mirate per singolo tumore ma anche per singolo paziente».