Appello della moglie dell’architetto Marletta in «coma persistente» dopo un banale intervento ai denti.
CATANIA. Sette minuti che hanno cambiato una vita, anzi quattro.
E’ accaduto nel 2010 a Irene Sampognaro e ai suoi due piccolissimi figli: 7 minuti, il tempo in cui il cuore di suo marito, Giuseppe Marletta, architetto catanese quarantreenne, è rimasto fermo, durante una banale operazione chirurgica ai denti e prima di una disperata rianimazione che lo ha consegnato però a un «coma persistente».
Il suo caso, reso pubblico con determinazione dalla signora Irene che nel giorno del primo anniversario di quei «sette minuti» ha protestato davanti all’ospedale Garibaldi di Nesima, dove si è svolto l’intervento, per la giustizia mai avuta, per l’assistenza mai ricevuta, e ancora è in attesa di una risposta. «E il mio timore – dice la donna – è che il caso torni nell’oblio con il passare dei giorni, che i contatti e le promesse che pure ho
avuto in queste settimane non si traducano in niente di concreto».
Irene, insegnante alla Parini, coetanea del marito, appare forte e quasi “dura” mentre rievoca ciò che è stato e mentre lotta per cambiare almeno il suo futuro.
Una forza che la donna prende dai suoi cari: la sua famiglia d’origine, dove la signora Marletta si è rifugiata qualche mese dopo la tragedia e i suoi «cuccioli»: Edoardo aveva solo quattro anni quando il suo papà è «sparito» ed Eleonora che era nata da pochi mesi.
«Sarò retorica – dice –, ma la forza me la danno proprio i miei figli: sono sola ora e li devo crescere e anche nel migliore dei modi, come piacerebbe a Giuseppe».
E’ la promessa che Irene ripete a suo marito ogni giorno, quando lo va a trovare nella Rsa a Viagrande dove si trova ricoverato e tenuto in vita. «Gli parlo come se fosse presente – dice la donna –, gli racconto quello che faccio, quello che è successo, gli faccio ascoltare la sua musica preferita: che so, Battiato o gli Eagles, o gli faccio sentire un cd con la voce di nostro figlio. Io credo che mi senta, credo che ci senta: perchè sobbalza a ogni rumore?».
E’ la speranza di Irene, assieme alla consapevolezza che «i medici hanno sostituito a un termine come “irreversibile” quello di “coma persistente” perchè del funzionamento e delle risorse del cervello umano ne sanno poco o niente. Ecco – dice – io chiedo all’assessorato alla Sanità, al ministero, che mi diano l’opportunità di tentare, per mio marito, le cure migliori.
Perchè dopo avermelo ridotto in questo modo, lo restituiscano a una vita piena».
E quello che chiede ora Irene è che si permetta al neuroendocrinologo russo-israeliano Vitali Vassiliev di visitare Giuseppe e curarlo con il suo metodo. Specializzato in Medicina Spaziale ed Aereonautica, il professore è autore del “metodo degli adrenogrammi” che, applicato agli ammalati con paralisi cerebrali realizza il recupero naturale delle alterazioni del funzionamento del sistema nervoso con una efficacia di guarigione stimata dal 50 al 70%.
Una «biocorrezione» che ha restituito molti pazienti – fra cui alcuni siciliani – alla vita sociale e familiare. «L’ho già contattato – dice – e mi è sembrato possibilista.
Ma Giuseppe è intrasportabile e mi devono aiutare a far venire qui il prof. Vassiliev».
Di eutanasia non vuole parlare più per ora la signora Irene, anche se aveva disperatamente minacciato il ricorso alla «morte buona» per suo marito. Per ora è tempo di lottare. E di ricordare.
«Ci siamo conosciuti – si illumina mentre lo rievoca – in modo strano. Io che ho sempre fatto l’insegnante, undici anni fa collaboravo anche con una tv privata e da “giornalista” mi è toccato di intervistare Giuseppe, autore per devozione del progetto della Chiesa della Madonna della sciara ora in costruzione a Mompilieri. Ed è stato – continua – un amore a prima vista. Al terzo appuntamento mi ha chiesto di sposarlo e io non ho avuto esitazioni. Era bellissimo, affascinante e un concentrato di virtù. Un anno dopo eravamo marito e moglie».
Una favola bella che è continuata con la crescente affermazione professionale del giovane architetto e con la nascita di Edoardo e poi di Eleonora. «E avevamo ancora tanti progetti, tanti sogni… Infranti con quella dannata telefonata che mi è giunta dall’ospedale. Ero a casa ad allattare – ricorda Irene –, e non ho capito subito la gravità della situazione».
Poi i giorni convulsi, le crisi strazianti del piccolo «abituato a dormire abbracciato al papà», i lavori dello studio professionale che devono andare avanti comunque, la casa svaligiata «di tutto, anche delle nostre fedi», la decisione di portare i bambini a vivere dai nonni e, un mese fa, anche un impegnativo intervento chirurgico per Irene, dal quale la donna si sta a poco a poco riprendendo.
«Ma non importa, purchè mio marito torni com’era. Ma, mi chiedo spesso: avremo giustizia? E chi lo ha ridotto in questo stato, ci pensa mai? E riesce a dormire la notte?».