L’11 maggio del 1981 Bob Marley, prima rock star del Terzo Mondo, ambasciatore universale del reggae e della spiritualità rasta, moriva a soli 36 anni muore in un ospedale di Miami, stroncato da un melanoma partito dall’alluce e poi estesosi a tutto il corpo. Le sue ultime parole al figlio Ziggy sono state: «Money can’t buy life» (i soldi non possono comprare la vita ). Erano il manifesto di un vita vissuta all’insegna della musica, della libertà, e contro il capitalismo, definito corrotto e decadente sistema babilonia.
La Giamaica restava orfana del suo eroe-musicista, un leone con la criniera di dreadlocks (lunghe ciocche di capelli annodati), un profeta di pace che aveva contribuito ad evitare le guerra civile ed era diventato il punto di riferimento per tutta la cultura afroamericana. Un rivoluzionario che voleva combattere miseria, schiavitù, razzismo, odio usando come armi la musica che «colpisce e non fa male».
L’Italia lo aveva conosciuto di persona un anno prima della sua morte, il 27 giugno 1980, alllo stadio Meazza di Milano ad un concerto che aveva richiamato 100.000 persone e il giorno seguente a Torino, in un altrettanto gremito stadio comunale. Dopo gli anni violenti del terrorismo anche in Italia c’era voglia di altra musica, di messaggi positivi, di pace, di spiritualità e di marijuana: l’erba che Marley, come prescritto dalla sua religione rasta, considerava sacra, un mezzo di contatto con Dio, dal quale traeva ispirazione per le sue canzoni. Sosteneva che «l’erba è come la frutta, mantiene in forma e libera la mente» e obiettava che se «Dio ce l’ha data» non può essere illegare, altrimenti sarebbe «illegale anche Dio».
Bob era nato in Giamaica il 6 febbraio 1945 a Nine Mile, figlio di un ufficiale di marina bianco di origini inglesi e di una donna di colore, Cedella Booker. Una unione malvista sia dai bianchi, sia dai neri e che fece sperimentare al piccolo Bob il razzismo di entrambi i colori. L’ufficiale inglese abbandonò la moglie incinta. Non fu mai il padre di quel figlio meticcio che venne cresciuto dalla madre nei sobborghi di Kingston, una delle zone più povere e pericolose del mondo. Qui, però ha avuto la fortuna di incontrare Bunny Livingston e Peter McIntosh (meglio conosciuto come Peter Tosh), con i quali fonda, nel 1966, The Wailers, la band con cui incide i primi successi.
Rita e le altre
Nello stesso anno sposa Rita che lo iniziò al rastafarianesimo, dottrina religiosa che riconosceva nel re d’Etiopia, Haile Selassie, il proprio profeta. A Rita, la moglie che non abbandonerà mai nonostante le numerose donne che hanno affollato la sua vita, come Cindy Brakespeare, miss universo a meta’ degli anni 70, forse la passione piu’ intensa di Bob. Dalla relazione tra i due nacque Damien, un musicista di assoluto talento della scena contemporanea. A Cindy è dedicata una delle canzoni d’amore, contenuta nell’album Exodus: Turn your lights down low.
I Wailers
I Wailers raggiungono un successo planetario con «Catch a Fire», il loro primo album pubblicato nel 1973. L’anno dopo segue «Burnin» che contiene la canzone «I Shot the Sheriff», ripresa da Eric Clapton, il chitarrista inglese che contribuì non poco a rendere Marley una star di fama internazionale. Sciolto il terzetto, la carriera di Bob proseguì sotto il nome Bob Marley & the Wailers. Quella sigla, BMW, fu l’unica ragione che lo spinse a comprare un’auto della casa tedesca: «non certo perchè amo le auto di lusso». Nel 1975 con il singolo «No Woman, No Cry», scala le classifiche di mezzo mondo, seguito l’anno dopo da «Rastaman vibration». In Inghilterra, dove si trasferì forse in seguito ad un attentato di cui fu vittima prima di un concerto in Giamaica, ebbe un successo strabiliante con «Exodus», definito il miglior album del secolo.