L’ITALIA è una cartolina nella cornice dello specchio, col timbro di tanti anni fa. È un rimpianto impossibile, un errore di gioventù, una patria sì bella e perduta e non ritrovata, un pensiero che non va più, che si posa sui clivi e sui colli solo nei rimpianti, buona solo per una svelta vacanza. L’Italia degli expat è un paese che non si può semplicemente lasciare: lo si abbandona, lo si ripudia, con dolore, spesso con livore, ma anche con un forte senso di liberazione, con la voluttà dell’avventura.
Expat è abbreviazione di expatriate, gli espatriati, quelli che lasciano per un po’ o per sempre la nazione di cui hanno ancora in tasca il passaporto; un nomignolo che ha fatto successo, un distintivo esibito con sfrontatezza, dove sembra di leggere un’amara constatazione: siamo gli ex della nostra patria, lasciati andare senza neanche un arrivederci. Sono quattro milioni gli italiani nel mondo censiti dall’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero, ma la prima grande sorpresa del censimento autogestito che Repubblica. it ha lanciato e che ha raccolto una quantità impensabile di adesioni, venticinquemila, è che neppure la metà di questi è registrata in quell’albo ufficiale. Dunque qui non parliamo di emigranti, neanche “nuovi“, ma di un’altra categoria di italiani, invisibili e senza nome collettivo, un genere antropologico tutto da raccontare.
Non sradicati, ma trapiantati. Non fuggitivi, ma cercatori. Non esiliati, ma approdati. Lo dicono loro stessi: solo sei su cento se ne sono andati “per necessità“. Più della metà invece lo hanno fatto “per scelta” (40,64%) o “per amore” (10,27%). E anche tra i delocalizzati “per lavoro” (39,14%), quasi nessuno aveva le spalle al muro.
Giovani (il 57% ha meno di 34 anni), istruiti (il 73% ha laurea o dottorato), prevalentemente maschi (due su tre): addio valigie di cartone, è l’identikit perfetto dei “cervelli in fuga“; ma “è proprio perché il cervello è rimasto al suo posto che sono partito” (un ingegnere, da Parigi).
Niente atteggiamenti hippy, niente fughe mistiche in India (oddio sì, qualcuna), niente rifiuti integrali della società: anzi. Sono riallocazioni ben mirate, razionali, da homo oeconomicus. Folgoranti scoperte di altre vite. Percorsi trovati per caso, “sono partita per curiosità, non avevo cercato lavoro“, ma poi seguiti con rapita determinazione. Quante folgorazioni durante un Erasmus, magari per l’incontro con “la donna della mia vita“, e poi la scelta: “questo è il paese in cui voglio vivere“, stracciato il biglietto di ritorno. Migliaia di ragazzi italiani hanno scoperto così che “il paese delle opportunità è ovunque, tranne che a casa loro“, come osserva ironico il Time parlando proprio di questo nostro censimento.
Ma casa, cos’è? Il concetto stesso di patria qui sta semanticamente slittando. La scelta di uscire dai confini nazionali si è fatta simultaneamente più drastica e più leggera. “Se voglio, in due ore sono a casa“, “sono più vicino che se lavorassi a Roma“. I voli low cost hanno stravolto l’idea di distanza, sostituendo le misure lineari con quelle temporali. “Mi sento europea non italiana“: più di metà degli expat censiti vive in paesi dell’Ue, a mezza giornata di viaggio dal luogo di nascita, la moneta è la stessa, i consumi e le abitudini simili, la lingua non è un problema per la generazione globish: dunque è ancora davvero un “esilio” traslocare all’estero?
Sì, in realtà lo è ancora, se la frontiera da scavalcare non è più geografica ma mentale, di costume, di etica pubblica. È proprio questo che rende la scelta dei fuoriusciti italiani diversa da quella più serena dei loro coetanei nomadi di tutto il mondo. Gli expat tedeschi o americani non partono con lo stesso disgusto per ciò che si lasciano alle spalle: “Volevo stare lontano da una società sempre più superficiale“, “ho lasciato un paese stantio, opprimente e privo di opportunità“.
L’esodo italiano non si spiega tutto col mercato del lavoro intellettuale che vede l’Italia vittima di un disastroso squilibrio nella “bilancia dei pagamenti” del talento. Il torrente in fuga dal Belpaese ha a che fare con l’economia almeno quanto con la sociologia, col costume civile, con lo scarto pauroso fra la mentalità diffusa del paese e quella della sua meglio gioventù. Per capirlo basta leggere le migliaia di storie individuali che tanti hanno allegato al questionario. Sono quasi tutte fughe da un’apnea. “Mi sono liberata dall’effetto acquario: solo da fuori vedi il vetro che ti circondava“.
Uscire dall’Italia per i nostri ragazzi è scavalcare la linea che divide due modi opposti di vivere, abbandonare un ambiente sociale percepito come frustrante, ingiusto, incerto per trovarne uno organizzato, sicuro, gratificante. “Dell’Italia rimpiango il sole, non il nepotismo“. “Sono gay, giovane e ricercatore: dovevo restare per essere tre volte discriminato?“. Nelle loro descrizioni l’Italia non è più un luogo fisico, è una condizione umana compromessa, un modo di vivere vecchio, ingiusto, punitivo, clientelare, mafioso, in un crescendo di disgusto e di vergogna. Mentre le nuove patrie hanno a volte il sapore della terra promessa dove scorre latte e miele: “ho una casa su un lago“, “vacanze ai Caraibi e auto propria“, “architetto a Sidney è meglio che schiavo a Milano“.
Certo, bisogna prendere con le molle questi saluti da lontano, “ciao stupida Italia!“. C’è l’astio degli amanti traditi: “amo l’Italia, non ricambiata“. “Ho maturato un rancore verso il mio paese natio che difficilmente si estinguerà“: se ne rendono conto. Ma parlano tra di loro, nei pub e nelle brauerei, confrontano le storie, e pian piano le singole esperienze infelici si generalizzano in sociologie spietate: “l’Italia affonda, lo faccia almeno senza i marinai“. Vista da lontano, sui giornali online e sui tigì satellitari, l’Italia s’irrigidisce nella maschera di un paese allo sbando: fenomeno ben noto a chi studia le comunità in esilio. “Più il tempo passa meno capisco l’Italia“. E poi ogni scelta di non ritorno, per attutire il disagio, disprezza sempre ciò che ha abbandonato, spesso più di quanto lo meriti. Ma non tutti si fanno illusioni: “Non esistono i paradisi, solo i posti dove stai bene“. Basta scoprire che la normalità esiste: “Qui non devi avere la raccomandazione anche per lavorare in un bar, e se sei sulle strisce si fermano: rispetto, rispetto, rispetto“, “Qui ci si abitua bene: per esempio ti pagano per quello che fai“.
Nessuna eden, ma un’altra esistenza sì. “Cosa faccio all’estero? Vivo!“, e “quando ti abitui a vivere, non torni più ad essere un ingranaggio del sistema di Babylon“. Si respira aria di auto-realizzazione in queste micro-autobiografie che non parlano solo di carriere e stipendi. “Sono diventata quello che volevo essere“. Si fugge da un’Italia stretta tra pregiudizi e repressioni: “Sono una ragazza madre e la mia terra non mi dava speranze“, “in Germania non sono trattata come una donna ma come una persona“, “posso fare jogging senza essere aggredita“, “qui sono un professionista e non il ragazzino dei computer“, “negli Usa conta quel che fai e non l’età che hai“. Sono un vero coming out a mezzo passaporto i sospiri di sollievo di decine di expat gay: “in Italia non potevo camminare per strada per mano col mio ragazzo“, “qui una lesbica non deve sopportare i sorrisini dei colleghi“.
È chiaro, queste venticinquemila sono quasi tutte storie di successo. Scrive l’orgoglio di chi ce l’ha fatta. Tacciono i fallimenti, i ritorni frustranti, le delusioni. C’è forse un’altra faccia della medaglia, più invisibile ancora, c’è sicuramente una globalizzazione ingiusta e vessatoria. Ma per chi ha saltato la barricata senza farsi male, la scelta di tagliare i ponti è irreversibile. “Qui la vita sociale è impossibile, ma l’Italia ci disprezza“, questa arriva dal Kazakistan; “il terzo mondo è l’Italia“, questa dal Mozambico. Si firmano “un italiano che non è più fiero di sentirsi tale“, scoprono di “essere ormai uno di loro“, gli scappa scritto “il vostro paese“, salutano beffardamente nelle loro nuove lingue: “hola todos“, “Grüsse“, “enjoy it all“, perfino in gaelico: “go raimh maith agat“; ripetono ossessivamente che “l’Italia è un paese bello solo per le vacanze“, e pure a piccole dosi perché “quando torno sento odore di muffa“; spiegano a nonni affranti che “i miei figli cresceranno qui“.
Sanno di essere considerati, in patria, quasi dei disertori: dagli stessi opinionisti che, se fossero rimasti, li avrebbero chiamati bamboccioni; ma anche da ex colleghi e parenti, “sono la nipote egoista che rinnega le sue radici“, e ne soffrono, si sentono in debito, “ho ricevuto un’ottima istruzione pubblica, sono un investimento a fondo perduto“, si giustificano: “fuggire non è la soluzione, ma devo preoccuparmi della mia famiglia“, “non è egoismo ma istinto di sopravvivenza“, “è stata dura trovare la strada, non ho avuto tempo per fare la rivoluzione“. Un modo per dire che non ne valeva la pena, che ormai, come sentenzia Mario, ricercatore a Cambridge, “l’Italia è solo un’illusione“. Ma si poteva poi fare, la rivoluzione, in questa Italia? “Cristo si è fermato a Eboli“, si amareggia un expat campano, “ma dopo è partito anche lui“.