Letterato catanese del Futurismo, ormai lontano dalle ultime vampate del Verismo e già incline al post-modernismo, in realtà si chiamava Antonio Rapisarda.
Abbiamo avviato la nostra escursione tra i letterati catanesi del “futurismo” sulle tracce verghiane di Villaroel e la concludiamo con Aniante ormai lontano dalle ultime vampate del Verismo e già incline al post-modernismo.
Per molti aspetti è stato uno dei nostri contemporanei e la sua attività letteraria si potrebbe intitolare l’immaginazione al potere, così come la sua biografia sosterrebbe benissimo il titolo On the Road.
Non potremo certo qui condensare tutto il suo itinerario creativo (ci soffermeremo su un solo romanzo malnoto), ma alcuni tratti generali sono essenziali.
La sua è l’immaginazione che può quel che agli altri è negato.
Immaginare realtà diverse da quelle circostanti, forse inesistenti, assorbirle al punto da credere che siano diventate vere e vivere di esse: è stata la professione di molti artisti del Dopoguerra di cui lui fu un attardato, ma vivace, osservatore.
Gli piaceva immaginare le cose, rifare la storia, riviverla a modo suo e secondo i precetti del prediletto Nietzsche, renderla più vera. I dettagli delle cronache pedantescamente riverite dagli storici, sono trascurabili (per lui) e valgono meno di una colorata immaginazione creatrice.
Già a partire dal nome, che, seguendo la moda dei futuristi, scartò, creandosene uno nuovo: si chiamava Antonio Rapisarda, che gli suonava poco poetico, e divenne Aniante “L’uomo dei fiori” come spiegava, malmenando il vocabolario greco classico da cui diceva di averlo desunto.
Nella sua vita creativa inventò una biografia di Bellini, inventò scandagliando la personalità di Quinziano e Sant’Agata, inventò ritraendo se stesso nel “Paradiso dei 15 anni” che possiamo indicare ai lettori come un capolavoro del genere futurista etneo, di cui condensa ed esalta pregi e difetti (il volume è di difficile reperimento ma la Biblioteca Regionale Universitaria di Catania ne sta curando una maneggevole edizione digitale).
Il protagonista delle 230 pagine, agilissime e pubblicate a Milano da Ceschina nel 1929, è Nino Rapisarda, cioè lui stesso, col suo nome vero: il libro segue, in modo piuttosto impertinente, il modello del Cuore deamicisiano: è la cronaca di un anno scolastico che inizia ai primi di novembre (all’epoca si andava a scuola assai meno di oggi, ma si imparava assai più) e si conclude a metà giugno con il rituale tutti promossi.
Ma la classe non è l’elementare presa in considerazione da De Amicis, è la V ginnasio quando fanciulle e ragazzini transitano per la tempesta fisiologica che li renderà adulti: turbamenti, passioncelle, follie. Allora, in via Maddem di Catania c’erano numerosi accoglienti salotti dove le professioniste di Venere dispensavano incontri roventi e il mal francese. Al Sangiorgi e all’Olimpia scendevano bellissime sciantose dai nomi esotici e dalle origini paesane che facevano perdere la testa ai ginnasiali e il portafogli ai loro padri.
I giovanotti amano con passione la sensuale libraia rimasta vedova, la bottegaia indomita amazzone… e le compagne di classe: quella che nel sorriso nasconde la propria disponibilità, quella che è convintamene votata alla virtù religiosa. Tutti quadri colti con felicità di tratti, con un verismo di sentimento che non gira attorno alle parole, ci fa conoscere quei sordidi salotti delle belle mercenarie e soprattutto ne ritrae i sentimenti di autentico affetto.
C’è la Bolognese che inizia Antonio all’eros ed è veramente tenera con lui e gli scocca bacetti che restano nella memoria dello scrittore e del suo lettore assai più delle scene hot che pure abbondano tra le pagine.
Ma non è tutto sesso quello che attira lo scrittore. Ci sono i registri, le interrogazioni, il bullismo (e chi ha detto che è una novità di oggi?). Leggete questa scenetta: “Presidi, professori e bidelli corrono sempre il pericolo di vedersi far la pelle per un nonnulla, evitano, fin che possono, con le gentilezze e le più svariate concessioni, dalle vacanze straordinarie alle promozioni abusive, di farsi sfregiare le gote con i rasoi affilatissimi…” E scene di guerriglia si svolgono a Piazza Dante dove anche oggi è rimasto qualcuno dal grilletto facile.
L’immagine che salta fuori dal libro è una Catania che tutto sommato somiglia a quella colta o bifolca, onesta o faccendiera di oggi e che, nonostante i suoi difetti è amata dallo scrittore che si incanta descrivendone non tanto i monumenti, ma l’umanità che la popola: “I cinematografi si illuminano, le terrazze dei caffè si affollano, le pasticcerie espongono giocattoli di zucchero candito meravigliosi… la Birreria è il luogo e il ritrovo della perdizione per chi la vuole e la cerca: ha dunque un fascino particolare, la frequentano i mafiosi, i viveurs, gli sportivi, i politici…”
Non più, perché le pagine sono tanto interessanti che finiremmo con il trascriverne troppe. Ma dicevamo sopra che Aniante era insofferente di regole e falsava la verità. Se il racconto fosse veritiero dovrebbe collocarsi nel 1915 o ’16. Però nel romanzo si parla, come di un fatto appena accaduto, dell’assassinio di Joe Petrosino (occorso nel 1909) e dell’arresto del falsario Paolo Ciulla (avvenuto nel 1922): anche ad ammettere qualche dislocazione cronologica i conti non tornano e questo ci fa dubitare della realtà dei misfatti che vengono attribuiti, con cognomi appena cambiati, alla jeunesse dorée della Catania incamminata al Fascismo.
Non è un gran difetto. Lo stesso Manzoni, che pretendeva di scrivere un romanzo storico, spostò qualche data concentrando entro pochi mesi fatti e personaggi che in realtà erano abbastanza distanti tra di loro. Ma il Lombardo mirava a rappresentare soprattutto lo spirito di un secolo, il Seicento, e Aniante mirava manifestamente a cogliere lo spirito di una Città: la Catania dinamica e gaglioffa che amava le automobili sfreccianti dei Futuristi e le alcove peccaminose dei Decadenti.
(font: La Sicilia – Sergio Sciacca, 04 ottobre 2010)