Cimentarsi in un impegno letterario – dopo una vita professionale di tutt’altro genere – e riuscire con la propria opera brillantemente nell’intento è già un bel premio alla fatica dell’autore: ma “La Trazzera” di Emilio Corino è qualcosa di più. Non è semplicemente un libro ben fatto, un felice esordio, ma ad una lettura attenta rivela una cultura letteraria saldamente posseduta e una pluralità di intenzioni. Possiamo definirlo un ‘romanzo di formazione’ (bildungsroman), la storia di un processo di maturazione che lungo una strada a volte faticosa porta dall’infanzia alla maturità, il racconto di una crescita che dalle forme di vita dei primi anni evolve esperienza dopo esperienza verso la compiutezza umana e professionale dell’età adulta. Ma possiamo definirlo anche un ‘romanzo verista’ per l’attenta descrizione delle dure condizioni di vita dei contadini e degli operai siciliani, per l’oggettiva rappresentazione di persone e circostanze, per l’uso frequente del discorso diretto. Particolare cura è riservata ai luoghi, quasi coprotagonisti del racconto, intensamente fruiti, vissuti nell’infanzia e per ciò intensamente amati. Questo robusto realismo è la cornice ideale di una denuncia sociale e morale: quanto più gravosa e ingiusta è la vita degli umili, a paragone di quella dei ricchi e dei potenti, tanto più spiccano per contrasto i loro valori etici, l’onestà, la famiglia, il lavoro, che stanno alla base della loro voglia, ansia di riscatto. Ne deriva anche una valenza pedagogica, sotto la forma dell’exemplum: l’Autore propone la sua vita e quella dei propri cari perché sia oggetto di riflessione per quelle giovani generazioni che troppo ignorano della grande Storia e delle piccole storie di cui quella è intessuta. Dal punto di vista narrativo non possiamo non notare la struttura ‘circolare’ del racconto: all’inizio e alla fine sta la trazzera, che possiamo definire dunque il ‘luogo per eccellenza’, che assurge a simbolo di un impegno di vita costante, volitivo ed orgoglioso. Last but not least, in questo libro la prosa narrativa si innerva di un ritmo poetico: lo fa soprattutto nelle pagine dedicate all’infanzia, ai suoi momenti più dolci e teneri, nei quali spiccano care figure femminili. Tuttavia questa infanzia non è vagheggiata alla Pascoli, bensì è vista sempre come un duro ma proficuo tirocinio di vita. E qui emerge a tutto tondo la figura del padre, oggetto di commossa gratitudine. E viene alla mente proprio una poesia, Noi non sappiamo, di Eugenio Montale, da Ossi di seppia. Quale sarà il percorso della nostra vita, quali saranno le nostre mete, felici o infauste, noi non lo sappiamo – dice il poeta. “Pur di una cosa ci affidi, / padre, e questa è: che un poco del tuo dono / sia passato per sempre nelle sillabe / che rechiamo con noi, api ronzanti. / Lontani andremo e serberemo un’eco della tua voce…/ E un giorno queste parole senza rumore / che teco educammo nutrite / di stanchezza e di silenzi, / parranno ad un fraterno cuore / sapide di sale greco.”
Salvatore Daniele