“Nun ti sevvi pi cumannu“: alzi la mano chi catanese, dalla mezza età in su, non si sia mai sentito rivolgere, o non abbia almeno ascoltato, questa espressione! Si tratta di un ‘catanesismo’ puro che se volessimo tradurre ad un ‘forestiero’, dovremmo dire pressappoco così: “Non considerarlo un ordine” oppure “Non ti sentire obbligato a farlo“, riferendosi ovviamente ad una richiesta. Se però ci pensiamo un po’, ci accorgiamo che la traduzione di questa formula di cortesia non rende del tutto la struttura della situazione. Cosa dovremmo aggiungere allora, per una migliore comprensione da parte del nostro interlocutore non catanese? A ben guardare l’espressione in questione rientra nel numero delle figure retoriche perché si tratta di un ‘eufemismo’, ossia di una formulazione attenuata, nel nostro caso di una aspettativa: che la richiesta venga soddisfatta senza indugi, accompagnata con la cortese rassicurazione che la si è eseguita volentieri. Ad usare l’espressione è infatti spesso una persona autorevole, per età o per posizione sociale, che non vuole però far pesare agli altri questo riconoscimento e non vuole abusarne: perciò desidera escludere che il suo sia un comando, anche se considererebbe offensivo un eventuale rifiuto. Una bella ‘commedia umana’, insomma! Ovviamente tutto ciò non significa che qualcuno possa anche usare la frase per pura e sincera cortesia. Quanto detto può servire ad illustrare con un esempio gustoso una tesi di alcuni studiosi del linguaggio, che sostengono che dietro ciascuna lingua si celi a supporto una “forma di vita”, un particolare modo di vedere il mondo e di vivere i rapporti sociali, che costituirebbe il vero significato delle parole, delle frasi e dei discorsi. Si tratta di una tesi controversa, ma che troverebbe, a mio modesto parere, una conferma nel ricco, complesso e intessuto di ‘vissuto’, dialetto siculo-catanese.
Salvatore Daniele
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